Cambogia, la testimonianza di Antonia
La meraviglia di Angkor. Una fusione perfetta tra ambizione architettonica e devozione spirituale. Le incantevoli apsaras (ninfe celesti) che danzano sinuosamente lungo i suoi muri insieme a 800 metri di bassorilievi di Angkor Wat, accompagnano la visita nel più famoso tempio-montagna (riproduzione in miniatura dell’universo) circondato dagli oceani (il fossato) su cui riflette la sua bellezza sublime. E poi Ta Prohm, lasciato in balia della giungla con le mura strette dall’intrico di radici, palcoscenico di “Tomb Raider”, il film con Angelina Jolie, alias Lara Croft; il piccolo ma raffinato Banteay Srei (“cittadella delle donne”); la serenità del Bayon, con le torri dai quattro enormi volti, che scrutano il visitatore da ogni lato. È questo il biglietto da visita della Cambogia, un Paese che ti lascia sopraffatto per le sue contraddizioni, da un lato la bellezza dei suoi templi circondati da una natura fertile e rigogliosa, e della sua gente che continua a sorridere dolcemente (nonostante tutto), dall’altro la ferocia della tragedia che lo ha ferito, ma anche la corruzione del presente. Un Paese traumatizzato. E che continua a esserlo.
Viaggiare con il Nodo fa la differenza. Perché ti costringe a lasciare le strade battute per raggiungere i villaggi nelle campagne dove la Onlus distribuisce i filtri per l’acqua. Niente acqua potabile né elettricità. Poiché anche l’acqua piovana mal conservata nelle apposite cisterne al difuori di ogni capanna-palafitta può portare a malattie e infezioni, l’organizzazione no profit oltre alla distribuzione dei filtri cerca di educare a un uso più sostenibile delle risorse. La vita nelle campagne è dura. A farne maggiormente le spese sono i giovani e i bambini, soprattutto le bambine, che non vengono mandati a scuola, o ritirati troppo presto, per quello che in Cambogia viene definito “il debito del latte”. La tradizione impone il “sacrificio” dei figli che invece di studiare e costruirsi un futuro sono costretti a dedicare le proprie energie a reperire le risorse per la sopravvivenza di genitori e nonni.
Una tappa del viaggio è all’istituto Kompong Thom, commuovente il legame che si è instaurato tra Luciana, Martina e i ragazzi sostenuti a distanza dal Nodo. Considerato orfanotrofio “modello”, l’istituto ha puntato molto anche sull’attività fisica dei ragazzi con campi per il gioco del calcio e della pallacanestro all’esterno. Peccato che il grande campo da calcio realizzato grazie all’intervento del Nodo sia stato requisito dal governo come spazio per “costruzioni di pubblica utilità”. E così almeno tre anni fa è stato alzato un muro per separare il grande campo dal resto del cortile dell’orfanotrofio, campo abbandonato e lasciato incolto (almeno per il momento) dalle autorità. Osservando quel campo, circondati dalle grida festose dei bambini che ti giocano intorno, pensi allo strano destino di questo popolo, completamente abbandonato a se stesso senza alcun tipo di servizi, assistenza, infrastrutture. Un popolo creativo pieno di risorse, oltre al sorriso che illumina i volti anche dei più poveri: una incredibile capacità artigianale riscontrabile nei manufatti di legno e di gioielleria, nella sontuosità delle sete, impreziosite dalla tessitura Ikat, nella raffinatezza della cucina Khmer ma anche dei mercati locali.
Phnom Penh è l’emblema delle contraddizioni. Un concentrato di stimoli e sensazioni, dai motorini che sfrecciano a tutta velocità alle guglie scintillanti e immobili del Palazzo Reale, dai suoi raffinati caffè agli odori pungenti che emanano dalle bancarelle di cibo agli angoli delle strade, alla sua splendida posizione per la confluenza dei due maggiori fiumi che attraversano il Paese, il maestoso Mekong dalle acque azzurre e il Tonle Sap, dal colore più fangoso. Una metropoli di oltre due milioni di abitanti che nonostante la povertà dilagante, con i suoi ponti e grattacieli, guarda a Singapore. Saliamo sulla Vattanak Tower, la famosa torre che ricorda il serpente (naga, il serpente mitico, spesso ricordato nell’architettura di Angkor) per ammirare la città dall’alto di una terrazza il cui design non ha niente da invidiare alle architetture di lusso della vicina Singapore. Eppure bisogna scendere a piano terra e addentrarsi nei vicoli del centro storico per rendersi conto della povertà dilagante e delle condizioni fatiscenti delle abitazioni dei suoi abitanti.
Grazie a un tour in cyclo organizzato da giovani architetti si riconoscono le architetture coloniali, o meglio, tracce di bellezza che affiorano nelle abitazioni delle famiglie più povere che hanno occupato, per esempio, anche solo una stanza di quello che era un prestigioso hotel francese. Oggi utilizzano una cucina in comune, l’odore è nauseabondo mentre soffitti e scale cadono a pezzi. Così come si apprende di ingenti investimenti cinesi per grattacieli di pessima qualità, completamenti vuoti, per l’impossibilità di un cambogiano medio di affittare lì anche solo un monolocale. Mentre l’afflusso dei turisti cinesi, molto consistente prima, con il covid è letteralmente crollato. Complice forse anche la bolla “sgonfiata” dell’immobiliare cinese. I cyclo pedalano lungo le strade affollate, sotto ammassi intrecciati di fili elettrici ai lati delle vie, edifici fatiscenti si alternano a villette protette da alti muri sovrastati da spirali di filo spinato, dimora dei più abbienti.
Ricorre il filo spinato al Museo del Genocidio Tuoi Sleng, denominato S-21, il liceo occupato da Pol Pot, trasformato nel principale centro di detenzione e di tortura del Paese. Agghiacciante è la visita ai Killing fields, in apparenza un luogo di pace, in realtà un parco trasformato in campo di sterminio. Questa ferita che risale al periodo 1975-’79 non è ancora stata sanata. Perché ogni famiglia ne porta i segni, a causa dei matrimoni forzati imposti dai khmer rossi, del fatto che carnefici e vittime sopravvissute alla tragedia abbiano dovuto poi convivere, della difficoltà per i genitori di parlarne ai figli.
Di fronte a tutto questo classe dirigente e governo latitano e si distinguono solo per corruzione. Non si capisce perché parte delle risaie siano state vendute ai cinesi (la Cambogia è un grande esportatore di riso e la Cina uno dei suoi maggiori acquirenti) così come pare siano stati investimenti made in China a spingere per un nuovo grande aeorporto, a firma Foster + partners, a 20 chilometri dalla città. “Ne abbiamo uno più vicino, a neanche 9 chilometri dal centro che ha sempre funzionato benissimo – dicono alcuni locali -. Non se ne sentiva proprio la necessità di un’altra grande infrastruttura che farà lievitare ulteriormente i costi dei trasporti aerei”. E’ il business, bellezza.
Antonia Jacchia